Un cimelio di famiglia

“La cinepresa funziona!!0! Canta che è un piacere!” è il messaggio che leggo stamattina, spedito da Manuel dopo la mezzanotte. Si tratta di una cinepresa super 8 di mio padre, ereditato giusto quarant’anni fa alla sua morte, e rimasta abbandonata in un armadio. Arcangelo, mio padre, era appassionato di molte cose, tra cui la fotografia; fotografava e filmava soprattutto gare in bici e moto, cui faceva da staffetta a cavallo della sua Laverda 750. Sempre presente ai motoraduni anche d’oltralpe, congetturava di andare perfino in Cina! Un infarto lo ha fermato, prima dei sessant’anni. Gli è mancato un erede maschio cui trasmettere il suo sapere da sportivo e da foto amatore, cosicché io ho cominciato a maneggiare la Minolta, ereditata alla sua morte piuttosto in ritardo; poi accantonata quando si è fatto strada il digitale, senza nessuna pretesa di competere con i fotografi. Ho la fortuna di frequentare Manuel, un gioiello di ex alunno, ora studente universitario di Ingegneria elettronica e scopro che si interessa di oggetti “vetusti” da riportare in vita. Recupero dal suo sonno quarantennale la cinepresa, perché la ispezioni (operazione fatta con successo per un registratore Gelosino). Premetto che non ero riuscita nemmeno ad aprire la custodia a bauletto che sembrava bloccata… Il tempo di fare una dormita e stamattina mi arriva la sorpresa: La cinepresa funziona!!! Canta che è un piacere! Sono sicura che mio padre si congratulerebbe con Manuel, che è diventato uno di famiglia. Così l’eredità non si è dispersa: ha solo svicolato per altri lidi, giungendo ad un approdo sicuro.

La luce del mattino… e della speranza

Incredibile come il paesaggio muti rapidamente di prima mattina, tra le sette e le sette e mezza: si passa dall’oscurità della notte all’esplosione della luce che pare scaturisca dalle montagne che si tingono di rosa, mentre la luna cala dietro la vetta più alta. Me ne accorgo dallo studio mentre sto scrivendo ed esco per immortalare l’attimo fuggente. Fa freddo, sono i giorni della merla ma è un buon segno perché preannuncia una buona primavera (ne abbiamo bisogno). Ieri sera c’era la luna piena, che da sola è uno spettacolo, stimolatrice di versi poetici e non solo. Febbraio è alle porte e mi aggrappo alla speranza di una primavera non più blindata, ma anzi liberatoria di restrizioni. Ben venga la vaccinazione di massa, a restituirci un po’ di libertà. Siamo tutti provati da dieci mesi di vita sotto vetro, oppure sovraesposta, come nel caso di chi lavora in prima linea, e ne conosco di persone che hanno dovuto rinunciare a ferie e prebende per il bene comune. Bene, oggi concludo col pensiero giunto con un messaggio che mi pare appropriato al contesto: La vita è come il flusso delle maree. Ci sono alti e bassi. Quello che devi ricordare è che durante la bassa marea trovi le conchiglie più belle (le cento porte).

Addio, Puma!

– La mia amica a quattro zampe se n’è andata, improvvisamente, lasciandomi attonita. Adesso riposa sotto a una pianta di rose, in prossimità dell’ingresso, così le mando un saluto quando esco. Le dedico il mio post odierno, facendo mio l’invito della psicologa Germana Carillo, secondo la quale “Anche la narrazione, cioè raccontare e condividere la propria esperienza, agevolerebbe la presa di coscienza dell’evento e delle emozioni correlate”. Inoltre la meravigliosa leggenda del paradiso dei nostri animali, che Arletta mi ha inviato, mi consente di affrontare la perdita della mia cara micia con relativa serenità. Ne parla Manuela Valletti Ghezzi nel suo piccolo libro La Leggenda del Ponte Arcobaleno, che di certo mi procurerò. Adesso parlo di Puma, mite, discreta creatura entrata a casa mia nell’estate del 2010, attraverso mio figlio che l’aveva avuta da Valentina, cucciola gracile allevata col biberon. I ragazzi l’avevano chiamata Ruspa, nome che a me non piaceva e che ho cambiato in Puma, per via del pelo nero. In casa c’erano già due cani e due gatti più grandi, con uno dei quali, Sky, si intendeva alla perfezione. Non altrettanto con Grey, l’ultima arrivata, di tutt’altro carattere. E sì, perché anche gli animali hanno una loro indole, e il gatto continua ad affascinarmi per la flessibilità, non solo fisica ma anche psicologica. Di Puma apprezzavo che fosse… gentilmente selvatica, ritrosa ma disposta a concedere delle speciali tenerezze: mi scaldava le gambe, di pomeriggio e di sera durante la seduta di magnetoterapia davanti alla tivu e si infilava sotto le coperte, accucciandosi all’altezza dell’anca: terapia graditissima! Era moderata nel cibo e prediligeva il pesce, come me. Stava volentieri in studio, seduta accanto a me mentre ero al computer. Ultimamente mangiava poco e si muoveva meno, indizi che avevo attribuito al freddo e all’età, non più evergreen (anche se 11 anni non sono moltissimi). Purtroppo la seduta in clinica veterinaria ieri pomeriggio ha evidenziato una cardiopatia avanzata, di tipo congenito che speravo le consentisse una sopravvivenza accettabile. Ho fatto in tempo a riportarla a casa dove ha fatto l’ultimo giro per le stanze. Poi si è distesa davanti alla stufa e ha intrapreso il suo viaggio verso… il Ponte Arcobaleno: là spero un giorno di incontrarla. Ciao Puma, grazie di esserci stata! 💙 –

Gatti e amore

Un caso mi porta a recuperare una poesia di Umberto Saba, citato nel post di ieri, per una questione privata: Puma, la mia gattina nera di dieci anni, da qualche giorno ha smesso di mangiare, forse è solo raffreddata ma mi preoccupa. Superfluo dire che tra noi c’è un feeling e che mi fa gradita compagnia. L’ apprezzato poeta triestino, nei suoi componimenti tratta con leggerezza di problemi quotidiani (dietro i quali si nascondono emozioni profonde), come l’innamoramento presumibilmente della moglie Lina oppure della figlia Linuccia, che associa a quello della gatta innamorata. Dato che a breve saremo a Febbraio, mese di grandi serenate (e azzuffate) feline, la poesia La gatta torna utile. Anche se temo non c’entri col problema della mia Puma. Oggi pomeriggio la porto dal veterinario e poi ne saprò di più. A beneficio dei lettori, riporto la poesia che segue, intitolata La gatta, per una reciproca condivisione. La tua gattina è diventata magra./Altro male non è il suo che d’amore:/male che alle tue cure la consacra./Non provi un’accorata tenerezza?/Non la senti vibrare come un cuore/sotto alla tua carezza?/Ai miei occhi è perfetta/come te questa tua selvaggia gatta,/ma come te ragazza/e innamorata, che sempre cercavi,/che senza pace qua e là t’aggiravi,/che tutti dicevano: “È pazza”./È come te ragazza. (da Trieste e una donna, 1910-1912)

27 gennaio 2021

Per la Giornata della Memoria, quando ero in servizio ero solita proporre ai miei studenti la poesia La capra, di Umberto Saba (Trieste, 1883 – Gorizia, 1957), pseudonimo di Umberto Poli, di origine ebraica. La poesia è del 1910, ma nei decenni successivi, con l’orrore dei campi di sterminio e delle camere a gas, assunse un significato di dolore cosmico che accomuna uomini e animali. Con un linguaggio disadorno, in tre strofe il poeta racconta l’incontro con una capra solitaria, che si lamenta perché è legata; le fa il verso, ma poi comprende che soffre e riconosce nella sofferenza dell’animale “dal viso semita” (da Sem, uno dei tre figli di Noè, capostipite dei Semiti; per certi aspetti il muso delle capre richiama i lineamenti della razza ebraica) il lamento che proviene da ogni creatura. La lirica si basa sulla comunanza tra uomini e animali. Appartiene alla raccolta Casa e campagna (1909-1910), confluita poi nel Canzoniere e fu tradotta in quasi tutte le lingue d’Europa. Talmente intensa ed espressiva, da lasciare nel lettore un senso di religioso sgomento. Riporto il testo della poesia La capra Ho parlato a una capra./Era sola sul prato, era legata./Sazia d’erba, bagnata/dalla pioggia, belava./Quell’uguale belato era fraterno/al mio dolore. Ed io risposi, prima/per celia, poi perché il dolore è eterno,/ha una voce e non varia./Questa voce sentiva/gemere in una capra solitaria./In una capra dal viso semita/sentiva querelarsi ogni altro male,/ogni altra vita.//

Se i fiori potessero parlare

Se i fiori potessero parlare, quante cose potrebbero raccontare! In casa ho parecchi vasetti distribuiti in varie stanze, comprese le talee di gerani che ho fatto sia nella prima che nella seconda ondata della pandemia. La stanza più luminosa è la cameretta a sud, dove la gatta schiaccia il pisolino quotidiano e io scrivo il post di primo pomeriggio, illudendomi, se c’è il sole che sia primavera. Ci stazionano le piante verdi, in compagnia di libri, quadri di fiori realizzati a mezzo punto da mia madre, musicassette e fotografie sulle ante dell’armadio: una sorta di galleria domestica. Per lo squilibrio termico, deve essersi confuso un vasetto di ciclamini, inizialmente confinato in bagno e dato per spacciato, che ha ripreso vigore: prima spunta un fiore di un bel rosa deciso, incalzato poi da una decina di boccioli puntuti che si fanno strada tra una decina di foglie in cerca di luce, qualcuna mangiucchiata da un minuscolo bruco. Intuendo una ripresa vegetativa, l’ho trasferito nello studiolo – la stanza luminosa – dove ha trovato la collocazione ideale per fiorire, o forse per rifiorire, dato che si tratta di una piantina vecchia, non so se in ritardo rispetto alla stagione, oppure in abbondante anticipo. Dati i tempi controversi, non mi stupirei della confusione che distribuisce a piene mani temperature rigide ed altrettante miti. Comunque sia, nel cuore dell’inverno, a ridosso dei freddi giorni della merla, sono grata al piccolo ciclamino che colora di rosa la mia giornata. Anche oggi madre natura ha impartito la sua lezione fuori copione, dimostrando che c’è ancora posto per la meraviglia.

Prodotti speciali

Il lunedì mi dà la carica per la ripartenza. D’abitudine faccio la spesa in un supermercato a qualche chilometro, con annessa pescheria. Forse ho già detto che preferisco di gran lunga il pesce alla carne, forse anche per il ricordo affettuoso del nonno materno Giacomo che vendeva pesce, stipato in cassette sulla bicicletta. A casa sua, a Pravisdomini (PN) c’era sempre la polenta gialla sul tagliere con lo spago per fare le fette, da accompagnare a tutte le ore con dell’ottimo formaggio, oppure della saporita frittura di pesce a pranzo. Gli dedico un ritratto nel mio ultimo libro TEMPO CHE TORNA, di cui conservo numerose copie a casa, dato che sono saltate le presentazioni, causa restrizioni per pandemia. Stamattina ho comperato triglie, di un bel colore rosa, che farò al forno stasera. Ho fatto la spesa, sempre allargata rispetto alla nota fatta a casa, perché mi tentano i reparti non commestibili, tipo la profumeria e i prodotti omeopatici. Nei quaranta minuti circa in cui mi trattengo dentro il supermercato, ho il piacere di incontrare qualche conoscente. Oggi è capitato con Serenella, una mia ex alunna diventata insegnante come me, e come me quand’ero in servizio con i minuti contati, che sfrutta l’ora buca (dal servizio) per fare la spesa. Ma mi saluta gioiosa e mi regala comunque un sorriso alla cassa, mentre raccatta frettolosamente i suoi acquisti e io raccolgo dal carrello i miei, per posizionarli sul nastro per la registrazione. Ecco, la mia spesa non sarebbe completa senza questi prodotti speciale (non in vendita): gentilezza e simpatia!

Presenze e assenze

Penultima domenica di gennaio… immaginavo fosse l’ultima. Ho fretta che il tempo scorra e ci restituisca un po’ di normalità. Siamo rimasti in zona arancione, mentre speravo tornassimo in gialla! Il giallo è il mio colore preferito, in alternanza con il celeste: forse simboleggiano vitalità con bisogno di pace. Gialli sono anche i miei canarini. Non mi sono ammalata fisicamente, ma mi sento privata di molta quotidianità, quella che prima era scontata: andare al bar, leggere il quotidiano, servita di cappuccino e brioche, trattenermi a scambiare due parole con qualche avventore, magari stringere la mano di un conoscente… atti in apparenza da poco, ma radicati nel vissuto precedente. Mi manca il cineforum, proposto ogni tre settimane in paese, spesso preceduto dalla pizza in piacevole compagnia. Ero solita andare a trovare, una volta la settimana, una vicina di casa, ospite in una residenza per anziani: ora ci sentiamo per telefono… è già qualcosa ma non è la stessa cosa! La stessa distanza riguarda delle amiche che abitano in un raggio di trenta chilometri, che potrei visitare ma la cautela reciproca ci consiglia di attendere. Per fortuna la cara Lucia sta a un tiro di schioppo ed è più facile vedersi, con le dovute cautele. Mio figlio c’è, ma quasi non si vede, assorbito dalla preoccupazione per la chiusura della palestra, suo ambiente di lavoro. Presenza costante è quella di Astro, il vecchio cane e delle due gatte: Puma, anziana, sta sempre dentro, mentre la giovane, Grey, alterna nervosamente dentro e fuori. Gli otto canarini si fanno compagnia tra di loro, ma gli accendo la radio per invogliarli a cantare; spero che tra un mese si accoppino e la famiglia cresca. Era successo diversi anni fa, quando da cinque piccole uova erano nati altrettanti sparuti uccellini: una sorpresa meravigliosa! Mi conviene chiudere qui, con questa nota di speranza. Se oggi uscirà il sole, mi basterà.

“Dolce” sabato…

Oggi piove e trascorro parte della mattina in cucina per fare i muffin. Più tardi passa Adriana, che mi fa il piacere di apprezzarli e così godo di un momento di condivisione. Al pomeriggio, Manuel verrà a darmi una mano con i capricci del computer, così ho la giusta merenda da offrirgli. Il bello di questi dolcetti americani sta nella possibilità di variarne sempre il cuore, che nel mio caso è di frutta, di quella che matura in frutta una volta prelevata dalla confezione di plastica, tipo le pere. Infatti il ripieno di oggi sono le pere abate, con una bella spolverata di cacao e annaffiate con fialetta di mandorla. Per una cuoca negata come me, un bel risultato. Diciamo che ultimamente mi sono esercitata parecchio in “dolceria”, abbandonando del tutto le merendine industriali, con ridimensionamento del colesterolo. Il che è un bel vantaggio. E non finisce mica qui! Fotografo il prodotto finito e lo invio a Lisa, che nel suo giorno libero sta facendo gli gnocchi che consumerà a pranzo con Roberta, la sorella, al ritorno dal lavoro. Impegnarsi in cucina è un modo sano di volersi bene e di dimostrarlo ai propri cari. La dolce amica mi risponde con un complimento che mi fa entrare nella storia (personale): Ada masterchef e mi manda in foto un bel vassoio di gnocchi, pronti per essere calati in acqua. Ecco, oggi il benessere mi viene dalla creatività in cucina e dallo scambio di ricette via smartphone. In attesa di poter condividere in presenza le pietanze realizzate con le proprie mani, il più presto possibile!

L’ultimo traguardo

I giorni precedenti ho postato sull’attualità, gli eventi lo chiedevano. Calmatesi un po’ le acque, sono stata al mercato locale per le consuete provviste ai banchi del formaggio e del pesce, buttando un occhio ai fiori. Ho comperato un paio di ciabatte imbottite, perché in questi giorni freddi i miei piedi si lamentano. Il banco è giusto davanti all’edicola, perciò è inevitabile vedere i manifesti e gli avvisi posti sugli espositori mobili e fissati col nastro adesivo alle colonne dell’ingresso. Comprese le epigrafi. E qui il mio umore si rannuvola, quando tra tanti defunti ultraottantenni leggo il cognome di un 51enne di un paese confinante, che potrebbe essere stato un mio alunno. Turbata rientro e faccio un paio di telefonate, per saperne di più. Il cognome non mi è nuovo ed anzi ho presente un ragazzo mingherlino e vivace, a cui può darsi che abbia pure messo qualche nota sul diario. Se corrisponde, ho presente anche la madre, come tante madri apprensiva e preoccupata per l’esito scolastico del figlio. Nulla di nuovo sotto il sole, da questo punto di vista. Invece non è “normale” che un figlio muoia prima del genitore, né che un alunno manchi prima del maestro. Purtroppo succede e si rimane attoniti di fronte al mistero della morte quando accade in giovane età, considerata la durata media della vita nel nostro emisfero (che pare si sia abbassata). In queste circostanze dolorose, rivolgo una preghiera al defunto e cerco conforto nei classici. L’unica certezza è che l’ultimo traguardo tocca a ciascuno, talora imprevisto e imprevedibile.