Primo Maggio, il secondo in lockdown. Sul mio calendario è specificato Festa del lavoro, certo in ricordo delle lotte sostenute per la conquista dei diritti in tale ambito. Tuttavia lo spirito della festa latita, e a ragione. Nonostante caute aperture, siamo ancora in pandemia, con cenni di recessione virale. Ieri pomeriggio sono stata al cinema a Castelfranco, con Serapia, dopo otto mesi. Ho visto un bel film, MINARI, ambientato quarant’anni fa con protagonista una famiglia coreana in cerca di fortuna in America: molta poesia, nessuna retorica, scontri generazionali. Mi ha fatto pensare agli Anni Cinquanta in Italia, ai nostri immigrati ed emigranti. Tornata a casa quasi contenta, mio figlio, senza lavoro da quando la palestra è out (otto mesi) si chiede perché alcuni settori hanno ripreso a lavorare e altri – come quello dello sport – ancora no. Non ho avuto argomenti per rispondere, spero solo che resista ancora un altro mese. Temo che sia invecchiato dentro parecchio e con lui tutta una generazione catapultata dal benessere facile al malessere diffuso.Tra me e lui, temo sia lui il più sfiduciato. D’altro canto non riesco a mentire sul panorama perturbato che intravedo, e non alludo alle bizze del tempo, tuttora instabile. Anch’io cerco motivi di conforto e mi aggrappo alle parole del nostro presidente, sempre misurate e illuminanti, nonché a quelle espresse stamattina dalla scrittrice Dacia Maraini, durante la trasmissione Dialogo e che adotto come auspicio per i troppi che al momento ancora non lavorano: “Nuotiamo, la riva non è lontana”.